Per il centoquarantesimo anniversario della rivista, Nature pubblica un editoriale[1] del quale mi permetto di tradurre una porzione:
[…] Ma altri, alle volte, ripongono più valore nel nostro giudizio di quello che esso possa sostenere. Grandi finanziamenti, donazioni filantropiche e posti dirigenziali sono stati assegnati sulla base della forza di un manoscritto pubblicato su Nature - in effetti, utilizzando decisioni editoriali come surrogato di un giudizio indipendente. Questa è un’abdicazione della responsabilità di coloro i quali hanno potere decisionale, un tranello che deve essere evitato. Similmente, non traiamo alcun giovamento dal fatto che i ricercatori si sentano oppressi dalla necessità di pubblicare nelle ‘migliori’ riviste scientifiche. Sosteniamo quegli sforzi che possano creare sistemi che vadano oltre la crudezza dello impact factor[2], sistemi che rendano trasparenti le citazioni ed altri effetti di un articolo scientifico, e che testimonino l’impatto dei ricercatori anche in altri ambiti, quali i loro contributi alla costruzione di database e quella gran fatica della peer review.
Ogni mio commento sarebbe assolutamente superfluo. Ma sono benvenuti i vostri, tenendo in mente che la rivoluzione annunciata della nostra università dovrebbe basare il giudizio di merito dei ricercatori proprio su indicatori come l’impact factor.
[1] 140 Years on, Nature 462, 12 (5 November 2009)
[2] Sia in questo blog sia su questo giornale si è parlato numerose volte di impact factor, h-index, e del problema generale degli indicatori quantitativi della produttività scientifico-letteraria di un ricercatore.