Pubblicare un lavoro scientifico è un percorso carico di emozioni, di difficoltà, di traguardi. Tra qualche settimana va in stampa il mio ultimo nato, e come per tutti gli altri che lo hanno preceduto festeggerò appropriatamente con una bella cenetta. C’è chi festeggia, e con grande entusiasmo, manoscritti pubblicati su riviste considerate autorevoli, perché sarà una carta da spendere per un posto di lavoro, un finanziamento per la ricerca. Mettere nel sacco un manoscritto su una rivista ‘ad alto impatto’ (una definzione scivolosa) significa essere in corsa verso il prossimo successo. Ad alcuni però capita che l’esperimento non torni più, non si riesce a replicarlo. Comincia un periodo di crisi in cui non si sa se qualcosa è andato ‘storto’ quando riuscì, una variabile non più controllabile, o se qualcosa non va più ora, perché chissà cosa è cambiato da quei giorni gloriosi. Come in Il Dilemma di Cantor[1], quando il giovane Jeremiah Stafford mette a segno un esperimento cruciale per un premio alla carriera del suo capo, ma l’impossibilità di ripeterlo lo getta in uno stato di disperazione. Quando non si crede proprio più in quello che si era già dichiarato, c’è chi ritira una pubblicazione, con le dovute scuse.
Vorremmo ritirare la nostra pubblicazione…perché non siamo più riusciti a replicare l’esperimento. […] Anche se continueremo a studiare il caso, chiediamo che la rivista ritiri il manoscritto, e siamo spiacenti per le avverse consequenze che potrebbero esser risultate dalla pubblicazione del nostro lavoro[2].
La carriera può esserne stroncata. Le speranze di chi aveva usato quel lavoro per costruire e supportare il proprio pensiero, pure. Un evento infelice da entrambi i lati.
[1] Il Dilemma di Cantor, di Carl Djerassi, 240pp, Di Renzo Editore, 2003.
[2] Apparso la settimana scorsa su una rivista scientifica. Nel rispetto del dramma, scelgo di non citare.