Intorno al 1983, un ricercatore Italiano di nome Gregorio Olivieri si trovò a trascorrere del tempo presso il laboratorio di Sheldon Wolff, a San Francisco. Nel corso della sua permanenza, Olivieri tirò fuori dei risultati interessanti, rispetto a cui, come mi fu riferito da persone che lo conoscevano bene, lui stesso nutriva dei dubbi. Non tanto sul rigore con cui li aveva prodotti, quei dati, quanto sul loro significato. Nel 1986 veniva quindi pubblicato un lavoro[1] che rappresentò una svolta radicale dalla vecchia concezione, quella secondo cui il danno biologico da radiazioni ionizzanti è additivo ed è direttamente legato al danno sul DNA. Olivieri e colleghi mostrarono che piccole dosi di radiazioni ionizzanti potevano predisporre delle cellule in coltura a fronteggiare con maggiore efficacia il danno prodotto da una dose di radiazioni maggiore, impartita qualche tempo dopo. A seconda delle vostra prospettiva, questo potrebbe sembrarvi simile ad un fenomeno di immunizzazione, o sensibilizzazione. Ti dò un pizzicotto prima di darti uno schiaffetto, e questo ti farà meno male. Sembrò strano che le radiazioni ionizzanti potessero indurre cio’ che veniva chiamata “risposta adattativa”, perché si credeva, all’epoca, che il danno al DNA fosse sempre additivo: maggiore la dose, maggiore il danno. Con la risposta adattativa, una dose piccola seguita da una dose più grande sortivano un effetto inferiore a quello provocato dalla dose grande, quando questa veniva impartita da sola. Il mese scorso di Febbraio segnava il passaggio di 25 anni da quella pubblicazione, a cui hanno fatto seguito molte, molte altre pubblicazioni e progetti sulla risposta adattativa, argomento su cui ho lavorato anche io sia mentre ero in USA, sia adesso, qui a Roma. Nel gruppo di ricerca con cui collaboro, alcuni miei colleghi stanno mettendo su degli esperimenti sulla risposta adattativa. Prima di arrivare agli aspetti più originali degli esperimenti che si prefiggono-ci prefiggiamo di effettuare, abbiam pensato di eseguire degli esperimenti pilota, per vedere innanzitutto se siamo in grado di misurare la risposta adattativa classica, quella descritta da Olivieri e colleghi. ‘Siamo in grado’ significa che non siamo un branco di spipettati, che i nostri strumenti funzionano bene e così le nostre colture cellulari. La prima prova è finita ieri, Martedì e la misura riporta, perentoria e sicura di sé, l’esatto contrario di ciò che trovarono Olivieri e colleghi. Mi sa proprio che abbiam torto noi, che abbiamo sbagliato qualcosa, perché la risposta adattativa c’ha da essere, nelle condizioni che stiamo provando, nella coltura cellulare che usiamo in laboratorio. Ma cosa sia andato storto, questo non l’abbiamo capito. Le misure al microscopio sono state fatte senza conoscere l’identità dei campioni, per non essere influenzati dal risultato che si sperava di trovare. L’occasione, si sa, può fare il ricercatore baro, anche se lui non lo voleva “davvero”. Ma proprio “denudandosi” di fronte alla misura, asservendosi senza minimamente influenzarne il risultato, è possibile accettare tutto ciò che ne vien fuori, senza troppo sconforto, anche se non è come te lo aspettavi. Certo, dopo un paio di giorni trascorsi al microscopio, mi sarebbe piaciuto avere un risultato “grazioso”, ma non mi son sconvolto troppo. Ho passato di peggio. Stiamo già ripetendo l’esperimento, stando attenti ancora di più a quelle cose che potrebbero essere andate poco lisce la prima volta. Quando avremo dimostrato che la risposta adattativa c’è, allora andremo avanti con il resto del lavoro.
[1] Olivieri G. et al, Science 10 Febbraio 1984, pp 594-597